Il comune denominatore è l’uomo. Nella sua sfaccettata e apparente complessità il reticolo del comportamento umano ha intrecci che sono le “parole chiave” di interpretazione.
L’uomo all’inizio della civiltà si adatta al territorio , lo studia, gli da un nome, lo ama per i doni e lo teme per i pericoli. In questo senso la geografia influisce sulle religioni, poiché il primo dio con cui viene a contatto e deve confrontarsi è la terra in cui vive e cresce.
Durante degli studi compiuti sul paesaggio naturale rappresentato sugli specchi etruschi ho trovato particolarmente rilevante l’uso di incidere il bronzo con linee frastagliate di contorno per racchiudere i personaggi protagonisti della scena in un ambiente roccioso, nello specifico la grotta.
Gli Etruschi ben conoscevano le grotte.
Come scrissi nel mio elaborato:
“Dopo un’attenta lettura delle interpretazioni fornite nel CSE e un’analisi personale delle immagini si è stabilito, per chiarezza, di indicare, in questo elaborato, con la voce “grotta” l’incisione ondulata che ricorda la natura del suolo roccioso, ma che si estende anche ai lati della scena fin sopra alle teste dei personaggi.
Non sempre è stato facile distinguerla dalla vegetazione di tipo frondoso e dalle wavy lines intese come nuvole o rappresentazioni mistiche dell’aura divina di cui parla nei suoi studi Gisela Walberg. A volte il mito stesso a cui la scena fa riferimento conferma la presenza della caverna ad avvolgere, celare e garantire intimità alle azioni.”
Mircea Eliade, antropologo delle religioni diceva: ‘Nella preistoria la caverna, spesso assimilata ad un labirinto e trasformata ritualmente in un labirinto, era insieme il teatro delle iniziazioni e il luogo dove si interrano i morti. A sua volta il labirinto era omologato al corpo della madre terra. Penetrare in quel labirinto equivaleva ad un ritorno alla madre.’
Ne deriva un semplice messaggio onnicomprensivo: la grotta è luogo di passaggio, luogo che unisce l’umano al sovraumano e, al tempo stesso, a ciò che è infero e ancora, si potrebbe convenire, luogo adatto alla scena mitica che prende forma.
La sua simbologia è profonda e ben radicata all’interno di innumerevoli culture in tutto il mondo. Da sempre l’uomo l’ha considerata più di una semplice cavità, che fosse naturale o artificiale. Ne sono un esempio la grotta della dea Ilizia, presso Amnisos, il porto di Cnosso, le grotte sacre del deserto del Tassili in Algeria, la grotta di Chauvet in Francia o quella di Cuevas de las Manos in Argentina e ancora la sacra grotta di Lourdes.
Attualmente le grotte conosciute in Toscana e inserite nel Catasto Nazionale delle Grotte d’Italia sono ben 1843 di cui 1300 si trovano solo nella’area carsica delle Alpi Apuane, dunque gli Etruschi stessi dovevano avere una certa familiarità con caverne e grotte naturali per la morfologia del territorio in cui abitavano.
Non da meno lo modificavano profondamente. Evidenti resti del loro operare sono le cosiddette “vie cave”.
“Queste strade concepite presumibilmente tra il IX e l’VIII secolo a.C. si presentano come profonde incisioni nei ripiani tufacei ubicati nella parte meridionale della Toscana, nella valle media del Fiora e, in particolare nella valle del suo affluente, il Lente, tra i comuni di Sorano e Pitigliano”. Gli Etruschi, quindi, scavarono nella roccia tufacea, facilmente plasmabile, gallerie a cielo aperto, le “tagliate”, in alcuni tratti chiuse in alto dalle fitte fronde degli alberi. Tali vie cave che passavano in prossimità di necropoli erano larghe tra 1 e 4 metri e avevano una profondità che raggiungeva anche i 25 metri. Il microclima creatosi in questi stretti passaggi favorisce e favoriva la crescita di muschi, licheni e felci. Si potrebbe pensare a queste tagliate come delle vie di passaggio, ma il fatto che spesso corrono parallele, hanno talvolta andamento tortuoso e labirintico e conducono al medesimo luogo, smentisce questa loro funzione. Forse avevano una finalità differente e misteriosa, come fa notare Catacchio : “Per molte comunità antiche alcuni paesaggi fisici, reali, assumono valori particolari, sono uno spazio non neutro ma vissuto, carico di elementi simbolici e ideologici: il paesaggio mentale si sovrappone a quello reale.
Il territorio dell’Etruria corrisponde all’incirca all’attuale Toscana con i confini orientali e meridionali segnati dal corso del Tevere, quello occidentale dal Mar Tirreno e quello settentrionale dalla valle dell’Arno, con influenze alla fine del VI secolo avanti Cristo verso nord nella pianura Padana e verso sud nella Campania. Considerata tale estensione geografica, gli Etruschi avevano sicuramente confidenza con paesaggi variegati, ma il centro in cui la civiltà Rasenna si è radicata e sviluppata è un territorio per lo più collinare con rilievi montuosi, anche se modesti, e, in parte, di natura vulcanica in cui la pietra caratteristica è il tufo.
La roccia, magmatica, calcarea o tufacea e, di conseguenza, un paesaggio aspro e impervio, con speroni di roccia e altipiani era, dunque, familiare al popolo Rasna in quanto parte integrante del suo ambiente di vita. Per questo motivo, forse, compare, frequentemente negli specchi, sotto forma di suolo roccioso, grotta o singolo elemento, come supporto scenografico all’azione dei personaggi. A questa prima tautologica lettura si potrebbe avanzare anche l’ipotesi di una relazione tra le figure rappresentate e la natura retrostante.
Dunque riprodurre paesaggi rocciosi, antri e grotte era una “moda”, un’emulazione del reale, un retaggio di mitologia oppure un significato simbolico più profondo?
Proviamo a spostarci sia geograficamente che temporalmente lontano, fino alle isole del pacifico in cui i popoli della Polinesia misero piede relativamente tardi, durante un lungo processo migratorio dal 300 a.C che si protrae fino all’800 d.C.
Nella isole Hervey, appartenenti all’arcipelago delle Cook meridionali vi è un’isola che porta il nome di Mangaia. Si erge per circa 3750 metri sopra il livello del mare e cresce sopra un’area vulcanica e come molte isole della zona presenta incredibili barriere di corallo non lontano dalle sue coste. Ma quello che è davvero interessante di quest’isola è che presenta al suo interno grandi formazioni rocciose e incredibili caverne. Si credeva che Mangaia fosse il punto di passaggio per le anime dei morti verso Avaiki, il regno dei morti, dove regnava la dea Miru, che in molto somiglia all’italica Ecate. (anche Miru come Ecate è una dea ctonia, infera e ha delle figlie, come demoni dal nome Tapairu, simili alle figlie della dea italica, conosciute come Empuse).
Si credeva che ci fosse un profondo e oscuro passaggio direttamente sull’abisso in riferimento a una grotta sull’Oceano.
Ed ecco che ancora una volta l’antro della terra, in cui l’uomo trova da sempre riparo, è anche il frutto dell’inconoscibile, della sua paura più grande, quella della morte.
Eppure in tutto questo mi piacerebbe poter leggere una felice anche se inconscia associazione alla speranza che la morte rappresenti un’altra vita e come tale, nuovamente, d’obbligo, deve passare da una cavità oscura di un silente, incubante grembo materno della Terra.
BIBLIOGRAFIA:
M. Eliade: Trattato di Storia delle Religioni, Torino, 1976.
G.Walberg, Tradition and Innovation. Essays in Minoan Art. Mainz am
Rhein: Verlag Philipp Von Zabern. 1986.
Negroni Catacchio N., Cardosa M., Pitone M. R., Dalla grotta naturale al tempio, tra natura e artificio: forma ed essenza del luogo sacro in Etruria durante l’età dei metalli, in Antropologia e archeologia a confronto: rappresentazioni e pratiche del sacro, atti dell’incontro internazionale di studi, Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” (20-21 maggio 2011), Nizzo V., La Rocca L. (a cura di), Roma, 2012.
R. Williamson, Religious and cosmic beliefs of central Polynesia, Cambridge, 1933.
S.Feltrin, Elementi del paesaggio naturale negli specchi etruschi, 2017.